Marketing Automation: un’evoluzione tra inbound ed outbound
Abbiamo parlato spesso in questo blog di marketing inbound ed outbound, così come di marketing digitale e tradizionale, B2B e B2C. In un percorso a tappe tracciato dall’evoluzione delle tecniche di marketing e delle esperienze conquistate sul campo, abbiamo quindi cercato di creare una sintesi coerente, che consentisse di comprendere un fenomeno complesso e dinamico come quello che noi addetti ai lavori contribuiamo ogni giorno a trasformare in realtà.
Spesso abbiamo osservato le cose secondo una prospettiva storica, altre volte abbiamo posto l’accento sulle funzionalità ed altre ancora sulle tecnologie. In ogni caso abbiamo messo in evidenza quanto si sia cercato inizialmente di trasferire le cose note negli ambiti nuovi, per poi scoprire che l’innovazione comportava anche un radicale cambiamento del modo di fare marketing, intrecciando processi e metodologie per creare inedite modalità di comunicare col mercato.
Il marketing è un settore in continua evoluzione, in cui le varie accezione del termine stesso e del modo di declinarlo nelle diverse realtà creano nuova ispirazione ed idee, le cui origini sono spesso difficili da rintracciare
In questo articolo, ancora una volta, cercheremo una sintesi tra ciò che è apparentemente opposto: inbound ed outbound, proiettando quello che conosciamo sui due principali campi di applicazione del marketing: quello per le imprese e quello per il largo consumo.
Dal tradizionale al digitale
I più anziani tra noi ricordano come, non più di dieci o quindici anni fa, il marketing fosse fondamentalmente B2B e si basasse su eventi, posta ordinaria e fax, mentre il B2C era dominato dalla pubblicità sui media tradizionali (stampa e TV).
Poi è arrivata Internet, con i siti web e la posta elettronica. Il B2B si è dotato subito di questi strumenti, mentre il B2C ci ha messo più tempo; in tutti i casi la comunicazione era sempre di tipo outbound – ovvero diretta dal brand al mercato (grande o piccolo che fosse).
Dall’outbound all’inbound
I nuovi canali di comunicazione, spesso usati a sproposito o in modo esagerato (specialmente l’email), hanno dato luogo a “fenomeni di rigetto” da parte del pubblico, sempre più disturbato da una pubblicità insistente ed indiscriminata (e quindi molto poco efficace) sia in ambito B2B che B2C.
I Governi, inoltre, non avrebbero tardato molto ad intervenire con nuove normative sulla Privacy, proprio per arginare la raccolta selvaggia di contatti e l’invio massiccio di materiale promozionale; così si iniziò a parlare (soprattutto nel B2B) di inbound marketing.
Va però detto che l’inbound, da solo, non funziona: occorre prima “farsi conoscere”, ma bisogna farlo senza infastidire direttamente nessuno; occorre poi creare le opportunità, per chi è interessato, di incontrare il brand e di iniziare con l’azienda un percorso condiviso.
B2B e B2C
Nel frattempo, il web diventava 2.0 e si iniziava a parlare di commercio elettronico; ovviamente il B2C colse la palla al balzo e lo integrò immediatamente col marketing. Nacque così la pubblicità online a pagamento, ed i motori di ricerca (seguiti poco dopo dai social media) diventarono il trait d’union ideale tra aziende e mercato; l’importante, però, da un lato era farsi trovare, dall’altro offrire qualcosa di interessante in un’ottica di “discussione sul tema” e non di “consiglio per gli acquisti”.
Vennero coniati quindi termini come “lead generation” e “lead nurturing”; il primo si riferisce alla capacità di attirare nuovi contatti dopo aver “seminato” con l’outbound per poi lasciare che le persone interessate seguano i percorsi inbound per fare i loro acquisti o, almeno, per saperne di più; il secondo trasforma il “saperne di più” in un processo tutto nuovo.
Lead nurturing ed automazione
Questo “saperne di più”, inizialmente poco sentito dal B2C, fu invece subito utilizzato dai marketer B2B per far evolvere l’outbound (che segue l’inbound marketing) verso un’estensione del ciclo di vendita al di fuori del controllo diretto delle forze commerciali; in pratica era il marketing a fare “prospezione” del mercato utilizzando tutti i canali disponibili, a “spargere esche” (outbound) e quindi a catturare nuovi contatti (inbound), selezionarli, “nutrirli” adeguatamente con informazioni mirate (outbound), sviluppare in essi consapevolezza e quindi portarli gradualmente verso una propensione positiva all’acquisto. I venditori entrano in scena alla fine del percorso (buyer’s journey) e questo strumento di “pesca a strascico” simile ad un imbuto che “parte largo” per poi concentrare in un passaggio stretto i pochi lead maturi per la vendita, fu chiamato “sales funnel”.
Naturalmente, per far funzionare bene questo “imbuto”, occorreva gestire ogni fase del percorso d’acquisto e farlo individualmente per ogni lead, il cui “stato di maturazione” poteva essere diverso da quello degli altri – impensabile riuscirci con strumenti manuali.
Era nata ufficialmente la Marketing Automation.
Il ritorno dell’outbound
Se il B2B sviluppava l’automazione, il B2C si concentrava sulle transazioni online, salvo poi declinare sulle sue specifiche esigenze i meccanismi di “formazione” del potenziale cliente basati sul nurturing; la cosa, però, non fu né immediata né facile: ci volle tempo, infatti, per capire che le metodologie B2B non erano così facilmente trasferibili come, invece, lo erano le tecnologie abilitanti.
Nel frattempo entravano sulla scena i dispositivi mobili e, con essi, un nuovo modo di utilizzare il web e di comunicare, oltre alle app e alla geolocalizzazione.
B2C e processi non lineari di acquisto
L’outbound, in particolare nel B2C, non poteva limitarsi a suggerire la soluzione di un problema; doveva, infatti, anche profilare meglio i contatti, intercettarne i bisogni, calarli nel contesto e quindi fare proposte coerenti in tempo reale. D’altra parte, le nuove tecnologie lo rendevano possibile.
Così, mentre anche il B2B faceva proprie le nuove modalità di interazione con i lead ma sempre nell’ottica di un ciclo di vendita più articolato, il B2C scopriva nuovi orizzonti legati ai “momenti della verità”, ai “micromomenti” ed ai processi decisionali dei consumatori che si muovono in funzione di una quantità di elementi variabili nel tempo ed in un contesto altamente complesso e non lineare.
Lo stato dell’arte
Il nuovo outbound marketing B2C è veramente qualcosa di ingegnoso e tecnicamente fantastico!
Una volta che la parte iniziale dei processi di diffusione di consapevolezza del brand sono completati e che i nuovi contatti (anche anonimi) si sono mossi spontaneamente verso l’azienda, questa riprende l’iniziativa comunicando in modo outbound – ma non come si faceva quindici anni fa: oggi ciascun lead viene conosciuto individualmente, se ne comprendono preferenze, abitudini ed esigenze, si sa spesso anche dove si trova, ed ulteriori informazioni vengono estratte dall’app che utilizza e dai social media che frequenta; inoltre se ne traccia la navigazione sia sul sito aziendale che su altri siti “associati”. Insomma, se ne sa così tanto (inclusa la sua storia di acquisto, i carrelli della spesa abbandonati, i “mi piace” e le discussioni che segue), che si può arrivare a suggerirgli ciò di cui ha bisogno prima che lui (o lei) se ne renda conto.
A questo punto è difficile dire di no ad un marketing che non ti tormenta ma ti studia e poi ti offre una soluzione efficace ad un problema nel momento stesso in cui questo problema ti si presenta, oppure sei nelle condizioni migliori per risolverlo (ad esempio sei proprio davanti al punto vendita dove puoi trovare quello che ti serve).
Integrazione tra offline ed online
L’avvento di Internet e del commercio elettronico disintermediato, hanno inizialmente messo in difficoltà le attività commerciali tradizionali – ma il nuovo marketing B2C si è subito affrettato ad interpretare i nuovi fenomeni e a colmare il gap tra i due canali di vendita.
Così, se da un lato c’è chi fa showrooming (osserva un prodotto in negozio e poi lo compra online al miglior prezzo) e chi fa l’opposto (ROPO: research online, purchase offline), il nuovo outbound marketing “2.0” parte esattamente dalle ricerche fatte dai consumatori per poi insinuarsi abilmente nei loro percorsi decisionali e guidarli all’acquisto attraverso la modalità più consona o conveniente a seconda del momento – indipendentemente dal fatto che avvenga online oppure “offline”, cioè presso un punto vendita tradizionale.
Ovviamente anche i negozi sono diventati “smart” e quindi capaci di intercettare gli acquirenti in carne ed ossa che si trovano nei dintorni o al loro interno ma che, grazie ad un dispositivo mobile, sono connessi alla rete: grazie ai beacon e ad altri supporti digitali presenti nei punti vendita si possono presentare offerte particolari, gestire in modo flessibile i pagamenti, effettuare ordini o essere avvertiti quando la merce è disponibile (o ricorrere ad alternative come il corriere o un altro punto vendita della stessa catena).
In sintesi
Oggi parliamo di IoT nel retail, di supermercati senza casse, di realtà virtuale per arricchire l’esperienza di acquisto; ebbene: sono tutti strumenti la cui origine non risiede interamente nel marketing, ma a cui il marketing (e la sua evoluzione) hanno dato un grosso contributo soprattutto nella comunicazione su vasta scala, nella generazione di contatti, nella loro profilazione (e segmentazione) dinamica e, soprattutto, nella capacità di confezionare in tempo reale un messaggio promozionale, informativo o pubblicitario altamente personalizzato, coerente, rilevante e contestualizzato.
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Tags: Customer Journey, Inbound Marketing, Marketing Automation